La nostra storia è bellissima e come una fiaba un giorno ve la racconterò!” cit.

Correva il 20 Marzo 2017 quando nel neonato blog su cui state posando gli occhi, scrivevo queste parole. Dovete scusarmi se è trascorso più di un anno, ma il vostro Cele di fiducia è tornato con più forza e con più vigore pronto a raccontarvi di questa bella favola lasciata in sospeso tra le righe del tempo.
Ho pensato spesso a come raccontarmi e raccontarvi tra le pagine di un blog, ma fino ad oggi non avevo compreso una cosa: che per parlarvi del mio amato locale, devo innanzitutto fare riferimento alla sua storia. Perché è la storia che con il suo lento ed inesorabile mutamento che permette di evolversi, di maturare, di crescere e compiere scelte che fino a ieri parevano lontani miraggi o significativi quanto angoscianti punti di svolta. Perché il mondo attorno a te cambia, così come cambia il modo in cui le persone si rapportano a te, a quello che fai e a quello che sei.
Perciò eccomi qua con un anno di ritardo a raccontarvi di come anche La Pineta è cambiata, di che cos’era un tempo e come è diventata questo luogo che considero angolo incantevole, a tratti fiabesco, oggigiorno.
Cerco dunque di calarmi nei panni di lettore ed un po’ meno in quello di Celestino, e con fare molto documentaristico, inizio col dirvi che la nostra storia ha avuto origine nel 1962, quando mio nonno David prese in gestione un piccolo chiosco per fare solamente crescia e prosciutto.
Chi è delle mie zone lo saprà, la crescia Umbra è motivo d’orgoglio della nostra terra. Tanto unica quanto buona, così come le carni allevate nei nostri territori.

Parliamo di un piccolo punto di ritrovo che all’epoca le persone raggiungevano principalmente nel weekend per fare la classica merendella.
Ai tempi, qui dove oggi si erge La Pineta, non c’era nulla. Solo una distesa di pini, il chiosco ed un tiro al piattello di fronte a noi.
La struttura non esisteva ancora, arrivò solo più tardi, con mio padre.

Alla nascita del chiosco, andava di moda tra la gente di paese salire la Domenica al Monte Calvario per farsi una merenda e passare il pomeriggio giocando al tiro al piattello.
Lavorando stagionalmente su una struttura in affitto, le cose andarono fortunatamente bene e la nostra crescia divenne motivo di vanto familiare. Sia mio padre che i suoi fratelli vennero via via coinvolti nell’attività fino a quando non rilevarono la struttura dal comune.
Così quel piccolo chioschetto riuscì gradualmente a trasformarsi in un ristorante.
Col passare del tempo, è inevitabile che le mode cambino, e con esse anche il nostro modo di gestire l’attività.

Ci fu un periodo in cui la moda erano diventate “Le Balere”, ovvero le sale da ballo, forse tramandate dalla Romagna,  grazie alle quali si lavorava moltissimo, al punto tale che mio padre aveva ricevuto proposte per dare in gestione la struttura a gente professionista del settore per tour di band.
Addirittura ad un certo punto venne istituito dal comune un servizio di ordine pubblico di vigilanza per il mantenimento dell’ordine. Vi lascio immaginare quanti fatti anche spiacevoli potessero accadere a quel tempo grazie a chi alzava un po’ troppo il gomito. Ricorderò sempre di quella volta in cui un uomo del posto ubriaco sollevò una pistola finta contro mio padre (ma senza il classico riconoscimento dalla punta rossa) minacciandolo in cambio di soldi.
Ma non voglio angosciarvi, queste cose per fortuna non accadono più (*risata sguaiata che non potete sentire*). Erano tempi spensierati ma sicuramente redditizi. Fu mio padre ad investire sul mattone nel corso del tempo e a trasformarlo nell’hotel che è oggi.

Sempre parlando di mode, arriviamo nel pieno degli anni ’80, anni in cui i matrimoni andavano molto più di oggi, e dove si preferiva festeggiarli in ambienti caserecci, con cucina tradizionale e non ricercata.
Tagliatelle, lasagne, maiale in porchetta divennero la spalla della nostra sempre amata crescia, ed il nostro locale divenne infine un punto di riferimento per gli abitanti del posto e non solo.
Ci tengo tantissimo a puntualizzare di come la mia cucina abbia mantenuto intatti i tratti caratteristici della tradizione. Mi piace abbondare, non voglio che i Clienti escano dal mio locale insoddisfatti o, peggio ancora, con la fame.
Oggigiorno vanno di moda quei piatti che io considero “disegnati”, dove l’aspetto diviene la portata principale e si tralascia quello che invece dovrebbe essere la cosa più importante, la bontà.
Fin dagli esordi del ristorante, non ho mai dubitato delle portate dei miei genitori o della qualità dei piatti dei miei nonni. Mi hanno cresciuto con questa mentalità, insegnandomi a dare una priorità massima alla soddisfazione del Cliente, e mi si scalda ogni volta il cuore quando scorgo qualcuno sorridere, o socchiudere gli occhi deliziato nell’assaggiare le mie pietanze.
Ricordo ancora oggi di mia nonna Agnese che assieme ad alcune sue amiche, fedelissime della cucina La Pineta, impiattavano sfiziosissime faraone, quaglie, tagliatelle al ragù. Una cucina semplice e tradizionale, ma ricca di quell’amore e quel sapore tipici della pasta fatta in casa.Negli anni si sono susseguiti tantissimi camerieri e cuochi in una squadra che ci teneva così tanto al locale da spartirsi i turni e poter garantire un servizio costante e continuativo in cucina. Una grande famiglia allargata unita da un legame invidiabile, ed ancora oggi annualmente queste persone continuano a ritrovarsi nella nostra struttura per una cena estiva tutti assieme.

La Pineta è e rimarrà sempre sinonimo di questa fantastica unione, di questo concetto legato a tradizione e famiglia, e mi auguro che anche negli anni a venire un Diamantini potrà sostituirmi con orgoglio all’ombra della pineta di monte Calvario, pronto ad accogliervi con un gran sorriso e la voglia di dare sempre il meglio.
Per oggi direi di fermarci qui, e ringrazio sentitamente tutti coloro che avranno avuto la pazienza e la voglia di leggermi fino a qua.
E’ difficile parlare in maniera oggettiva di un qualcosa di cui si è tanto orgogliosi e per il quale si è dato tanto, ma vi garantisco che continuerò a provarci, sempre e comunque.
Un abbraccio.

Celestino Diamantini